Bioshock: una dissonanza ludonarrativa (intervista)
Perciò questa non sarà una recensione di BioShock […]. Questa sarà una critica di BioShock
— con alcuni limiti magari, dato che non ho il tempo di dedicare
veramente a questo gioco quell’analisi critica da 50 000 parole e più
che credo meriti, ma sarà comunque una critica.
Prima di
scriverla però, voglio scusarmi con chi ha lavorato a questo gioco. Se
questa fosse una recensione, avrebbe dei toni entusiastici, ma in quanto
critica, sarà un po’ brutale. In generale, ho apprezzato molto il
gioco, e fatta eccezione per qualche dettaglio di poco conto —
inevitabile per uno che considera System Shock 2 il miglior gioco di sempre — credo che questo videogioco sia veramente eccezionale. È importante dire che BioShock
soddisfa le aspettative create dal suo precursore, invitandoci a porci
domande importanti e avvincenti, e questa è una cosa bellissima. Ma
purtroppo ritengo che, nella maggior parte dei casi, le risposte che BioShock dà a queste domande siano confuse, scoraggianti, ingannevoli e poco soddisfacenti.
Per andare dritto al sodo, mi sembra che BioShock
soffra di una terribile dissonanza tra ciò di cui parla in quanto
gioco, e ciò di cui parla in quanto storia. Mettendo in contrasto gli
elementi narrativi e ludici dell’opera, sembra che il gioco
voglia prendere apertamente in giro il giocatore solo per aver aver
creduto alla finzione del gioco. La contrapposizione tra la struttura
narrativa del gioco e la sua struttura ludica quasi distrugge la
capacità del giocatore di avvertire un legame con l’una o l’altra cosa,
costringendolo ad abbandonare il gioco per protesta (cosa che io stavo
per fare), oppure ad accettare semplicemente che il gioco non possa
essere apprezzato anche come storia, per poi finirlo solo perché lo si
deve finire.
Che forma ha quindi questa dissonanza, e perché ha un effetto così totalizzante nel distruggere la coerenza interna dell’opera?
BioShock
è un gioco che affronta il rapporto tra libertà e potere. È
contemporaneamente (e tra le altre cose) una disamina e una critica
dell’oggettivismo
di Ayn Rand. Ci dice in maniera abbastanza esplicita che l’idea secondo
cui l’egoismo razionale è una cosa virtuosa o buona è una trappola, e
che il “potere” derivante da una libertà totale e incontrollata ci
corrompe necessariamente finendo per distruggerci.
Il gioco inizia offrendo al giocatore due contratti.
Uno è un
contratto ludico — di fatto un «ricerca il potere e farai dei
progressi». Il contratto ludico è in linea con i valori soggiacenti
all’egoismo razionale di Ayn Rand. Secondo le regole del gioco, “è
meglio se faccio il mio interesse senza considerare gli altri”. Si
tratta di uno schema abbastanza diffuso nei giochi in single player in
cui tutti gli altri personaggi del mondo di gioco (o quantomeno tutti i
personaggi che vi giocano) tendono a essere in conflitto diretto con il
giocatore. Tuttavia, c’è da notare che BioShock fa molto di
più, e riconnette in maniera spettacolare questo contratto di meccanica
ludica alla narrazione attraverso l’uso delle Sorelline. “Abbigliando”
le meccaniche di questo contratto con un contenuto ben fatto, il gioco
mi fa davvero vivere ciò che significa guadagnare facendo il mio
interesse (raccolgo più Adam) senza considerare gli altri (sacrifico le
Sorelline).
Di
conseguenza, il contratto ludico funziona nel senso che io avverto
effettivamente l’espressione delle tematiche di gioco attraverso le
meccaniche. Il gioco mi ha letteralmente fatto provare una gelida
indifferenza verso il destino delle Sorelline, che supponevo non
potessero salvarsi a prescindere (oppure, se anche fosse stato
possibile, che avrebbero patito un destino peggiore nelle mani della
Tenenbaum). Sacrificarle per perseguire il mio personalissimo interesse
sembra non solo la scelta migliore dal punto di vista meccanico, ma
anche la scelta giusta. È proprio questo che doveva fare questo gioco:
farmi vivere — sentire — cosa vuol dire abbracciare una filosofia
sociale che in normali circostanze non prenderei nemmeno in
considerazione.
Per
riuscire in toto, il gioco dovrebbe non solo farmi adottare in qualche
modo questa difficile filosofia, ma anche mettermi tra due fuochi, ossia
i sistemi e i contenuti che trasformano lentamente l’architettura del
gioco fino a farmi cadere nella sopracitata “trappola”. Sfortunatamente,
nel momento in cui prendiamo il primo contratto, quello ludico, e lo
associamo al secondo contratto, il gioco non funziona più.
Il secondo
contratto del gioco è un contratto narrativo — «Aiuta Atlas e farai dei
progressi». Il fatto che sia questo il contratto narrativo del gioco
pone tre problemi fondamentali.
Primo,
questo contratto non è in linea con i valori soggiacenti all’egoismo
razionale di Rand; “aiutare qualcun altro” viene presentato dalla storia
come la cosa giusta da fare, eppure le meccaniche ci dicono l’esatto
contrario.
Secondo, Atlas si oppone apertamente a Ryan, eppure anche qui, come detto prima, dal punto di vista filosofico io mi allineo a Ryan nel momento in cui accetto le meccaniche. Perché voglio fermare o uccidere Ryan? E perché mai dovrei ascoltare Atlas? La filosofia di Ryan è effettivamente il principio guida delle meccaniche che vivo nel gioco.
Terzo, io non ho una scelta in merito alla proposta del contratto. Il design del gioco mi costringe ad aiutare Atlas, anche nel caso in cui io sia contrario al principio di aiutare qualcun altro. Per continuare a giocare, devo fare come dice Atlas perché il gioco non mi offre la libertà di schierarmi nel conflitto tra Ryan e Atlas.
Secondo, Atlas si oppone apertamente a Ryan, eppure anche qui, come detto prima, dal punto di vista filosofico io mi allineo a Ryan nel momento in cui accetto le meccaniche. Perché voglio fermare o uccidere Ryan? E perché mai dovrei ascoltare Atlas? La filosofia di Ryan è effettivamente il principio guida delle meccaniche che vivo nel gioco.
Terzo, io non ho una scelta in merito alla proposta del contratto. Il design del gioco mi costringe ad aiutare Atlas, anche nel caso in cui io sia contrario al principio di aiutare qualcun altro. Per continuare a giocare, devo fare come dice Atlas perché il gioco non mi offre la libertà di schierarmi nel conflitto tra Ryan e Atlas.
Questo è
un problema serio. Nelle meccaniche del gioco, mi viene offerta la
libertà di adottare un approccio oggettivista, ma ho anche la libertà di
rifiutare questo approccio e salvare le Sorelline, sebbene farlo non
vada nel mio migliore interesse (netto) — anche nel corso del tempo,
secondo questi dati affascinanti.
Invece,
nella finzione del gioco, non ho la libertà di scegliere se aiutare
Atlas o meno. Secondo il contratto ludico, se accetto di adottare un
approccio oggettivista, posso sacrificare le Sorelline. Se rifiuto
questo approccio, posso salvarle. Secondo la storia, se rifiuto
l’approccio oggettivista, posso aiutare Atlas contro Ryan, e se scelgo
di adottare l’approccio oggettivista — be’, peccato… Posso smettere di
giocare, e fine.
È questa
la dissonanza a cui mi riferisco, ed è fastidiosa. Ora, il fastidio è
una cosa, ma per un attimo mettiamo di non farvi caso. Immaginiamo di
dire: “Be’, è un gioco, e le meccaniche sono favolose, per cui non
voglio far caso al fatto che la storia mi stia praticamente obbligando a
fare una cosa che contraddice il mio personaggio…”. Non è mica la fine
del mondo. Molti giochi impongono una data narrazione al giocatore. Ma
quando si capisce che il motivo per cui il giocatore aiuta Atlas non è
tanto un vincolo ludico che noi accettiamo di buon grado per goderci il
gioco, ma piuttosto un vincolo narrativo che ci viene imposto, allora il
fastidio diventa un insulto. Il gioco ci prende in giro apertamente per
aver volontariamente sospeso la nostra incredulità al fine di
godercelo.
È una sensazione che ricorda una pubblicità Ikea
in cui veniamo presi in giro perché ci dispiace per la lampada. Ma
invece di essere fregati da una stravagante pubblicità di sessanta
secondi, veniamo presi in giro dopo venti ore di impegno perché
cerchiamo di capire i limiti di un mezzo di comunicazione. Il colpo di
scena è un deus ex machina costruito proprio sui punti deboli delle
storie del gioco che noi — da giocatori — accettiamo per ottenere una
specie di cornice narrativa che aggiunga un po’ di pepe alle meccaniche.
Prenderci in giro per aver accettato i punti deboli di questo mezzo di
comunicazione non è soltanto un insulto ai giocatori, ma è proprio
vietato (a meno che non si sia in una commedia o di fronte a elementi
metatestuali — ma qui non mi sembra che si tratti né dell’una né
dell’altra cosa).
Ora, mi
rendo conto che questa critica è aspra, e anche del fatto che essa sia
costruita su argomentazioni complesse, quindi vorrei chiarire un paio di
cose.
In primis,
questa non è una recensione. Se lo fosse, me ne starei (perlopiù) a
sproloquiare sulle interessanti possibilità offerte dal gioco, sulle sue
armi originali, sui suoi bellissimi ambienti, sul suo coinvolgente
“ecosistema” nemico, sulla libertà di scelta, sugli spazi aperti da
esplorare, e su un mucchio di altre meraviglie. Ma io non sto parlando
di tutti i motivi per cui si dovrebbe giocare BioShock e di
tutti i motivi per cui è sicuramente un gioco godibile. Io sto parlando
del tessuto del gioco. Sto parlando della sua natura nei livelli più
fondamentali che riesco a cogliere. Sto parlando dei punti deboli che
vedo (o meglio ancora, che sento) quando vengo proprio coinvolto dal
gioco e quando vivo davvero quello che viene espresso nei suoi sistemi e
contenuti.
Come
seconda cosa, i punti che sollevo potrebbero sembrare a molti banali o
assurdi, e sicuramente le argomentazioni su cui si costruiscono tali
punti sono complesse. Sono certo che comprenderle sia difficile per
molti sviluppatori e impossibile per un profano. Sinceramente, quando
gioco con la stessa intensità con cui ho giocato, capisco solo
parzialmente quello che sto vivendo, e francamente capisco solo per metà
quello che sto scrivendo adesso. Dato che il “linguaggio dei
videogiochi” è limitato, è difficile capire quello che sto “leggendo”, e
cercare di metterlo a parole per il pubblico in maniera utile è un
compito di tutt’altra portata.
Perciò
prendete questa critica per quello che è. È la lamentela di un
Neanderthal semi-analfabeta e mezzo cieco che cerca di comprendere una
poesia geroglifica incisa nella pietra da uno scalpellino egizio con un
braccio solo.
Tempo fa — nella mia obiezione a Ebert — ho affermato che GTA: San Andreas è un’opera d’arte più importante di Crash: Contatto fisico. Ora, non mi prenderò il disturbo di annunciare che BioShock
è un’opera d’arte. Tuttavia, farò riferimento a un altro paragone tra
film e videogiochi che viene fatto spesso… Secondo cui i videogiochi non
hanno ancora il loro Quarto potere. Escludendo le analogie tra Orson Welles e Andrew Ryan, BioShock non è il nostro Quarto potere.
Ma comunque ci dimostra — più di tutti gli altri videogiochi che ho
provato — che siamo vicinissimi al raggiungimento di questa pietra
miliare. BioShock allunga il braccio, e scivola. Ma è quando ci
rialziamo da una caduta che lasciamo l’impronta più profonda. Penso che
ci vorranno ancora parecchi anni per imparare dagli errori di BioShock
e realizzare una nuova generazione di videogiochi che riesca
effettivamente a creare un connubio tra tematiche ludiche e narrative
per farne un insieme coerente e ben compiuto. Da quella nuova
generazione di videogiochi, forse, il gioco che sta a BioShock come BioShock sta a System Shock 2 sarà il nostro Quarto potere.
RICCARDO E CLAUDIA
RICCARDO E CLAUDIA
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